Sabato pomeriggio: improvvisamente, sulla soglia di casa, è primavera.
È un paesino piccolo, il mio. Poco distanti, le Prealpi vi si affacciano per osservare incuriosite lo strano fenomeno per cui, tra queste stradine, qualcosa manca: sono intere fette di tempo che aprono larghi buchi tra gli anni settanta e l’oggi, periodi che non hanno lasciato traccia. Un’anomala rarefazione temporale che mitiga la densità del presente, così che lo si possa abitare languidamente, come adagiati in un’amaca a maglie ampie.
Aprendo la porta di casa, quindi, non so bene che anno sia. Poco male: oggi mi interessano soltanto il caldo, la luce e il silenzio.
Mi incammino verso la biblioteca incontrando poche persone, tra le quali una coppia con un cagnolino: lei mi lancia un’occhiata inquieta (chissà perché), mentre il cane tira al guinzaglio. Si sentono solo i miei passi e il canto non distante di qualche uccello, in sintonia con tutto il contorno: canti semplici, senza pretese, fatti in casa, perché anche gli animali sono artigiani, qui, come molti degli abitanti.
E lo sono anch’io, un’artigiana: il mio lavoro è tutto fatto a mano, pazientemente, su materiali naturali, levigando ogni pezzo, che è diverso da tutti gli altri. Lavorare sulla psiche e sul pensiero umani è indubbiamente un lavoro artigianale: qualcuno vuole nobilitarlo dicendo che è un’arte – e di sicuro lo è per il talento di chi lo realizza – ma a me piace di più pensarlo come una buona opera di falegnameria, perché nell’arte il protagonista è l’artista, ma nei lavori artigianali il protagonista è la materia di partenza. E poi l’arte è per l’esposizione, mentre gli oggetti artigianali sono di uso quotidiano, proprio come dev’essere il nostro mondo interno: ben congegnato, durevole, adattabile, utile. Oltre che unico, ovviamente.
Procedo senza fretta, con la luce del pomeriggio addosso. Fa caldo, ma non troppo; c’è vento, ma non troppo. Due uomini camminano in senso opposto al mio, ai due lati della strada, uno un po’ più avanti, l’altro un po’ più indietro. Ho il sole negli occhi, che me li rende nere sagome in controluce, quindi non so che volto abbiano, cosa guardino, che espressione mostrino; vedo però la loro forma, le gambe arcuate di chi ha camminato per decenni sui sentieri di mezza montagna, l’andatura oscillante: sono anziani, abituati ad avanzare a piedi per queste strade che probabilmente percorrono da sempre.
C’è un odore particolare in alcuni punti della via, riconoscibile angolo per angolo: lo annuso con cura, perché è distintivo, come quello delle persone. E vado, un passo dopo l’altro.
Le poche macchine viaggiano lentamente, lasciandomi attraversare. Questa terra è alacre, ma non oggi, non in questo pomeriggio fin troppo assolato per essere l’inizio di marzo.
Lungo le strade si susseguono case disuguali, mai troppo alte; ostacolati dai loro tetti, i raggi del sole alternano di fronte a me luce e ombra, mostrando e nascondendo inaspettatamente la vista di vicoli, di cancelli che si aprono su altri muri di cinta di case arroccate, di spazi verdi lasciati a prato con qualche albero da frutto qua e là, come quarant’anni fa. Questo mi mette una sorta di quieta gioia: ho negli occhi della mente ciò che vedevo da bambina, quando tra casa e casa c’era molto spazio, all’interno del quale nessuno si affannava a disegnare aiuole ben rifinite.
All’incrocio, una chiesetta piccolissima e ben tenuta offre il suo muro esterno come schienale a chi sosta sulla panchina di pietra ad esso addossata. C’è sempre qualcuno, seduto qui: persone che stanno. Stanno e basta. Nessun cellulare, nessun libro, niente: siedono, a volte chiacchierando, a volte da sole, magari con gli occhi chiusi. Pensano, respirano, forse pregano, ricordandomi che essere vivi è già sufficiente.
Più avanti, la stradina che porta in piazza è lastricata di porfido. Qualcuno, nella casa che precede la biblioteca, ha una cantina seminterrata con una finestrella attraverso la quale si possono scorgere gli oggetti contenuti all’interno: sono cose comuni, quelle di tutte le cantine del mondo – un pallone, due ceste di vimini, uno scatolone dal contenuto ormai probabilmente ignoto anche agli stessi proprietari, le rotelle di una bicicletta da bambino che ormai non servono più – e guardarle così, passandoci accanto, mi sembra tanto istintivo quanto importuno.
Ma sono quasi arrivata: alcuni gradini di pietra e davanti a me si apre il piccolo anfiteatro del centro, su cui si affacciano quasi tutti i negozi del paese.
Qui, inaspettata come una ventata calda, la vera meraviglia: tre bambini di diverse età giocano a pallone, in mezzo a questa piccola piazza ricurva, con acute grida di divertimento nel silenzio che li circonda. Questo luogo è ancora, come una volta, l’estensione delle case circostanti: non spersonalizzato e negletto, ma abitato dagli sguardi degli adulti che passano o che sorvegliano pigramente da dietro le finestre tra un lavoro di casa e l’altro; perché i bambini, nei paesi come questo, sono ancora i bambini di tutti, a cui tutti badano anche solo con un’occhiata, che tutti proteggono con la loro presenza inavvertita e che possono giocare in questo spazio sentendosi a casa, sicuri, senza un pensiero.
I bambini sono in ombra, mentre io, che mi trovo più in alto, al sole: abbacinata, sono piacevolmente costretta a rivolgere lo sguardo all’interno, alle mie memorie d’infanzia, quando nelle lunghe estati liguri si scendeva in piazza a giocare e ci si rimaneva fino a tardi, senza che nessuno avesse paura di alcunché. Come i lavori artigianali, esistono anche i ricordi artigianali, e questo indubbiamente lo è: amato, curato, lucido come il legno sui cui si è passata la mano tante volte.
Con gli occhi chiusi ascolto le grida eccitate dei bambini e dentro di me sono consapevole del restante silenzio, del sole, del porfido sotto i miei piedi, di quest’aria tersa e sottile, del tempo che si è fermato. Una sensazione che è un dono raro e fuggevole, un po’ malinconico, un po’ dolce e un po’ qualcos’altro che non ha nome.
Pochi secondi, una folata di vento più forte ed è di nuovo il presente: salgo in biblioteca, prendo due libri e mi rimetto in cammino. Il ritorno è tutto in salita, io sono qui, adesso, e i miei sensi mi forniscono percezioni assai più nitide e definite di poco fa; ma quei pochi momenti mi restano dentro e rientro a casa camminando piano, nel vento leggero e nel sole, passando accanto a un uomo seduto sulla panchina di pietra con la schiena appoggiata alla chiesetta: lui sorride e anch’io sorrido, portandomi a casa il mio piccolo dono invisibile, tra le pagine dei libri presi in prestito.